Paralisi Cerebrale Infantile

Il danno cerebrale pre-perinatale si esprime a distanza con un quadro clinico eterogeneo, il cui spettro può variare dal solo danno motorio, all’associazione con ritardo mentale, deficit visivo e l’epilessia. Si tratta infatti spesso di una condizione di handicap multiplo che richiede una valutazione ed una presa in carico multidisciplinare.

La Paralisi Cerebrale Infantile (PCI) fu descritta per la prima volta dall’ortopedico inglese J.Little, il quale adottò la nuova pratica chirurgica di allungamento del tendine d’Achille. Nel 1861 Little pubblicò un resoconto sulla sua esperienza clinica relativa a 20 anni di lavoro in questo tipo di patologia.

I lavori pionieristici di Little diedero il via ad un ricco e sempre più specifico filone di ricerca. Lo stesso S. Freud, propose una classificazione delle PCI nel tentativo di correlare i diversi quadri clinici con le lesioni anatomiche cerebrali. A differenza di quanto sostenuto da Little, egli attribuì maggiore importanza alla nascita prematura ed alle anomalie dello sviluppo intrauterino piuttosto che alla sofferenza durante il parto.

A partire dall’inizio del secolo, fino agli anni della seconda guerra mondiale, l’interesse per lo studio della patologia spastica si mantenne piuttosto basso.

Molto scarsi furono anche gli approcci al metodo riabilitativo, accolti peraltro con scarso entusiasmo.

La terapia fisica dei soggetti con PCI fu introdotta negli Stati Uniti con il lavoro di J.Colby, una maestra di ginnastica che aveva coltivato il suo interesse per la massoterapia, da cui derivò, in maniera del tutto empirica, la maggior parte degli esercizi utilizzati nella proposta di trattamento di soggetti con paralisi spastica.

Negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, riemerse l’interesse per la ricerca in campo medico con un crescente interesse verso la medicina riabilitativa.

Contemporaneamente anche le richieste della società per i problemi dei portatori di handicap cominciavano a farsi più insistenti e consapevoli.

La PCI viene così considerata come "un disturbo permanente ma non immodificabile della postura e del movimento, dovuto ad un difetto o ad una lesione cerebrale non progressiva, determinata prima che l’encefalo abbia compiuto i principali processi di maturazione morfo-funzionale; il disturbo motorio è prevalente, ma non esclusivo e può essere variabile per tipo e gravità" (AACP – Accademia Americana per la Paralisi Cerebrale – 1957).Concepita inizialmente come deficit ortopedico di origine neurologica, veniva in breve tempo riconosciuta come una condizione patologica coinvolgente più sistemi funzionali ed in quanto tale soggetta all’attenzione di più specialisti e di più servizi. In una fase successiva, più vicina ai nostri tempi, essa veniva considerata come un disordine complesso dello sviluppo, una disabilità che diventa sempre più evidente nel corso della crescita dell’individuo e che per questa ragione necessita di essere riconosciuta e trattata precocemente. In tal modo questa malattia, considerata come ortopedica da J.Little, è divenuta il prototipo della disabilità dello sviluppo del bambino.

Definizione di paralisi cerebrale infantile

L’espressione Paralisi Cerebrale Infantile (PCI) definisce "una disturbo persistente ma non immutabile della postura e del movimento, dovuta ad alterazioni della funzione cerebrale, per cause pre - peri - post natali, prima che se ne completi la crescita e lo sviluppo" (Spastic Society, Berlino 1966). Analizzando in dettaglio tale definizione si possono proporre le seguenti considerazioni:

DISTURBO: indica una condizione, cioè uno stato fisso e permanente, non tanto una malattia, possibile di evoluzione sia in senso positivo che negativo; un disturbo permane, mentre una malattia può cambiare.

· PERSISTENTE: rinforza il concetto di disturbo come condizione stabile e definitiva e viene solo in parte attenuato dall’aggettivo NON IMMUTABILE che indica come siano tuttavia possibili miglioramenti o peggioramenti, spontanei o indotti.

· ALTERAZIONI DELLA FUNZIONE CEREBRALE: sottolinea che la paralisi è determinata da una incapacità del sistema, piuttosto che dal deficit di uno o più apparati che lo compongono (encefalo, cervelletto, tronco, ecc.). Il termine "cerebrale" va inteso come sinonimo di sistema nervoso e non di cervello.

· CRESCITA E SVILUPPO DEL SISTEMA NERVOSO: vuol significare che la PCI si distingue dalla paralisi dell’adulto in quanto mancata acquisizione di funzioni, piuttosto che perdita di funzioni precedentemente acquisite. La paralisi cerebrale infantile comprende infatti tutte le lesioni cerebrali acquisite nel corso della vita fetale, nel periodo neonatale o entro i primi mesi di vita del bambino, periodo in cui è massimo lo sviluppo del sistema nervoso centrale.

Questa definizione ha sicuramente il merito di essere la più diffusa ed accettata a livello internazionale, ma non risulta comunque completamente soddisfacente innanzitutto perché, come già accennato in precedenza, raramente il disturbo del movimento si presenta come una patologia isolata, ma il più delle volte è associato a problemi sensoriali, cognitivi, comportamentali e ad epilessia, elementi determinanti per la severità e la complessità del quadro clinico e per la prognosi; inoltre se per definizione la lesione cerebrale responsabile del disturbo è fissa e definitiva, tuttavia avviene a livello di un sistema nervoso ancora immaturo ed in via di sviluppo e quindi le sue conseguenze cliniche sono suscettibili di evoluzione e di cambiamenti sia in senso positivo che negativo.

Analizzata secondo un’ottica più strettamente riabilitativa, inoltre, secondo A. Ferrari (Ferrari A., Lodesani M., Muzzini S. 1993), la definizione internazionale utilizza termini che meritano un’analisi più specifica ed approfondita:

· PARALISI: Ferrari sostiene che un modo semplice per spiegare la paralisi potrebbe essere presentarla come un problema di muscoli: potrebbe essere un problema di debolezza, oppure potrebbe trattarsi all’opposto di un problema di forza eccessiva. Diventa però difficile spiegare come, nello stesso bambino, uno stesso muscolo possa presentarsi nello stesso tempo troppo debole ad un estremo e troppo forte all’altro. Un altro modo è quello di spiegare la paralisi non in termini di forza, ma di contrazione. In realtà i disturbi di contrazione possono essere molteplici: può trattarsi di eccessivo reclutamento, può trattarsi di una contrazione troppo prolungata o di incapacità di rilasciamento, può trattarsi di un errore nella scelta del movimento, di qualità della contrazione (tonica o fasica) da cui un precoce ed eccessivo affaticamento, di un errore nella associazione dei muscoli da contrarre (co-contrazione), ecc. Più adeguato sembrerebbe all’ Autore definire la paralisi come un problema di movimento, anche se rimane difficile definire uniformemente in che cosa il movimento viene alterato.

· CEREBRALE: l’uso di questo termine risulta, sempre secondo Ferrari, doppiamente improprio: prima perché la lesione non colpisce solo e sempre il cervello, ma può raggiungere e compromettere altre strutture, poi perché il termine riconduce al concetto di struttura (cervello) mentre va attribuito al concetto di sistema, infatti la lesione di un organo può restare confinata e circoscritta ma non può essere superata, la lesione di un sistema può consentire una diversa modalità di funzionamento ma finisce per ripercuotersi su tutte le strutture che lo compongono.

A partire da queste considerazioni l’Autore propone quindi un modello di classificazione funzionale che considera la PCI come un problema di organizzazione funzionale del bambino nella sua interazione con l’ambiente.

Classificazione di paralisi cerebrale infantile

Le classificazioni oggi più utilizzate sono essenzialmente fenomenologiche, si basano cioè sulla determinazione dei segni clinici preminenti e sulla possibilità di eseguire raggruppamenti sindromici.

Infatti si è osservato che una classificazione anatomopatologica è impraticabile perché pochi casi arrivano all’autopsia e perché differenti lesioni possono causare un quadro clinico simile. Per quanto riguarda una classificazione eziologica è necessario sottolineare che fattori eziologici simili possono produrre differenti lesioni patologiche e quadri clinici molto diversi, soprattutto in rapporto al momento evolutivo in cui agiscono (Aicardi e Bax 1998). Una classificazione clinica, invece, appare più applicabile ed utile, dal momento che esistono correlazioni tra il tipo di interessamento neurologico, l’evoluzione, la terapia anche se altri fattori, rispetto alla grossolana distribuzione del deficit motorio possono essere importanti per determinare la prognosi e il trattamento. Per questa ragione, deficit associati come epilessia, deficit visivi, deficit uditivi, deficit di sviluppo psicomotorio, devono essere tenuti in considerazione nella valutazione individuale del paziente e l’approccio deve essere multidisciplinare.

La classificazione di Hagberg, che è attualmente la più utilizzata, si basa sulla identificazione di sottogruppi in base al riconoscimento di segni clinici raggruppati in sindromi e non sulla possibile causa o sede di lesione, in accordo con i sistemi classificatori accettati in Svezia dal 1958 e modificati da Hagberg nel 1972.

Classificazione Internazionale delle Paralisi Cerebrali Infantili

(Hagberg, 1975)

- SINDROMI SPASTICHE emiplegia

(piramidali) tetraplegia

diplegia

- SINDROMI ATASSICHE diplegia atassica

(cerebellari) atassia congenita semplice

- SINDROMI DISCINETICHE prevalentemente coreoatetosiche

(extrapiramidali) prevalentemente distoniche

Mantenendo la suddivisione delle PCI nei tre gruppi di Hagberg, Michaelis ha individuato all’interno delle sindromi spastiche la sindrome tetraplegica o "paralisi cerebrale spastica bilaterale" dividendola in 5 forme in base all’entità del danno motorio in modo topografico (Michaelis et al. 1989).

 

CLASSIFICAZIONE DI MICHAELIS

1.

DOMINANTE AGLI ARTI INFERIORI

Leg dominated

2.

DOMINANTE AD UN EMICORPO

Side dominated

3.

TETRAPARESI CROCIATA

Crossed dominated

4.

DOMINANTE AI TRE LATI

Three limb dominated

5.

DOMINANTE AI QUATTRO ARTI

Limb dominated

LEGENDA:

arti maggiormente colpiti

arti colpiti in misura minore

2. Emiplegia

Cenni epidemiologici

L’emiplegia è, insieme alla diplegia spastica, la forma più frequente di PCI (Fazzi E., Balottin U., Orcesi S., 1999) . La valutazione dell’ incidenza e della prevalenza di tale quadro di PCI in Italia è molto difficoltosa in quanto manca a tutt’ oggi un sistema centralizzato ed unificato di rilevamento delle diagnosi e i pochi studi riguardano popolazioni selezionate afferenti ad un singolo Centro o abitanti in una piccola area geografica. In generale comunque gli studi epidemiologici sulla PCI presentano notevoli difficoltà, per la non uniformità dei criteri diagnostici e classificativi utilizzati e per la mancanza di dati su popolazioni definite. Un ulteriore problema è l’età che viene giudicata corretta per porre la diagnosi: se tutti gli Autori sono concordi nel ritenere che non si possa porre una diagnosi di paralisi cerebrale prima della fine del primo anno di vita, è difficile invece stabilire con esattezza qual’ è l’età della diagnosi definitiva: casi di bambini molto piccoli (sotto i tre anni) possono far sottostimare la vera prevalenza, perché i quadri più sfumati e lievi possono rendersi evidenti anche ad un’ età più tardiva; inoltre un quadro clinico inizialmente diagnosticato può, con il passare dei primi anni di vita, migliorare e modificarsi fino a far classificare lo stesso bambino come affetto da un'altra forma di PCI o, addirittura, "guarito" ( Nelson K. B. e Ellenberg J. H., 1982).

Fatte quindi le dovute precisazioni, i lavori epidemiologici più attendibili e recenti (Krägeloh- Mann I. et al, 1993; Hagberg G. e Hagberg B. 1996) riportano una prevalenza di PCI nei Paesi con sevizi sanitari avanzati di circa il 2-3 per mille nati vivi; dato che sembra rimanere sostanzialmente stabile nel corso dell’ ultimo decennio. Bisogna però sottolineare che il miglioramento delle tecniche di assistenza intensiva neonatale ha portato ad una riduzione della mortalità perinatale, ma anche ad una maggior sopravvivenza di bambini ad alto rischio di danno cerebrale; l’aumentata sopravvivenza di soggetti nati pretermine, ha inoltre comportato negli ultimi decenni un cambiamento importante anche della frequenza con cui i diversi tipi di PCI si manifestano, con un aumento significativo della diplegia spastica, sequela tipica della prematurità, che è diventata, insieme all’ emiplegia , il quadro clinico di più frequente riscontro.

L’emiplegia spastica è più frequente nei nati a termine rispetto ai pretermine. Secondo Hagberg (1996) l’emiplegia è presente nel 10% dei nati gravemente pretermine (< 28 settimane), nel 16% del gruppo dei pretermine tra le 28 e le 31 settimane, nel 34% dei nati moderatamente pretermine (32-36 settimane) e nel 44% dei nati a termine (³ 37 settimane).

Eziopatogenesi

La noxa patogena responsabile del quadro emiplegico può agire in epoche diverse dello sviluppo del sistema nervoso e classicamente si suddivide in danno cerebrale di origine prenatale, perinatale o post natale.

In generale le cause prenatali comprendono i fattori ereditari e cromosomici, quelli tossici (alcool, fumo, droghe, malattie metaboliche), infettivi, traumi materni, patologie dell’ utero e degli annessi e le alterazioni cardio-circolatorie materne.

I fattori perinatali sono tutti quei traumatismi connessi al parto che possono, con meccanismi diversi, portare ad una sofferenza cerebrale anossico-ischemica- emorragica (travaglio prolungato, parto distocico o precipitoso, presentazioni anomale ecc..).

L’origine postnatale è molto più rara ed in tale evenienza le cause sono: meningiti con arterite trombosante, stato di male convulsivo unilaterale, disidratazione acuta grave, traumi cranio cerebrali (Lanzi G.- Balottin U. 1999).

Per quanto riguarda in particolare l’ eziologia dei quadri di emiplegia i diversi Autori concordano nel ritenere per lo più diverse le cause del danno se si tratta di soggetti pretermine o di nati a termine: nei prematuri il danno avviene quasi sempre in epoca perinatale, mentre i soggetti nati a termine hanno spesso un’ anamnesi perinatale muta e l’evento eziologico ha agito nel corso della gravidanza, durante la vita fetale.

Secondo uno studio compiuto da Uvebrand (1988), fra i bambini nati a termine con emiplegia congenita, l’eziologia veniva considerata prenatale, principalmente causata da malformazioni o lesioni circolatorie del cervello nel 42%, combinata pre e perinatale nel 9%, perinatale (emorragia cerebrale, ipossia) nel 16% e sconosciuta nel 34%. La corrispondente distribuzione tra i nati pretermine era 29% (prenatale), 47% (pre perinatale), 25% (perinatale), 6% (sconosciuta). L’emiplegia acquisita dopo la nascita, principalmente di causa postinfettiva, iatrogena o postraumatica, costituiva nella casistica l’11%.

Anche Hagberg (Hagberg B. et al. 1996) su 206 bambini esaminati con PCI, trovò che 45 (22%) presentavano un’ovvia eziologia prenatale, 82 (40%) più probabilmente peri/neonatale e 79 (38%) sconosciuta.

All’interno del gruppo dei pretermine, l’8% (7/90) aveva un’origine prenatale e il 54% (49/90) perinatale, confrontati con i nati a termine in cui il 33% (37/116) presentava un’origine prenatale e il 28% (33/116) perinatale. Un dato che ci sembra importante sottolineare di questo lavoro è l’alta percentuale (circa 1/3) di soggetti nati a termine con un periodo pre-perinatale completamente silente e quindi un’eziologia sconosciuta.

Un contributo ormai insostituibile alla diagnosi precoce ed alla comprensione eziopatogenetica dei quadri di PCI è stato apportato dall’ introduzione nella pratica clinica quotidiana delle moderne metodiche di neuroimaging, soprattutto l’ecografia cerebrale e la RMN, che si sono aggiunte alla TAC, esame le cui indicazioni sono ormai ridotte a situazioni ben definite e specifiche.

L’ecografia cerebrale rappresenta la tecnica di prima scelta per individuare il danno cerebrale già dalle prime settimane di vita e per seguirne l’evoluzione nel tempo, mentre il contributo della RMN appare più importante e significativo per valutare gli esiti a distanza , quando si è completata la mielinizzazione cerebrale. Per ognuna di queste tecniche esistono oggi molte esperienze in letteratura che confermano la presenza di correlazioni significative tra tipologia, sede, entità delle lesioni, gravità ed espressione clinica della disabilità.

Una ricerca svolta in Italia dall’équipe di Pisa (Di Paco M.C., Cioni G. e Canapicchi R., 1993) propone un’analisi retrospettiva dei dati relativi alle immagini ottenute con la RM nell’ambito di diversi tipi di PCI su una casistica di 60 soggetti. I risultati ottenuti dalle correlazioni tra parametri RM e tipologia di PCI, mostrano un’ampia diversità di frequenza e gravità delle lesioni nell’ambito di diverse forme cliniche, in larga parte correlate alla gravità del quadro clinico.

Prendendo in esame i quadri di emiplegia spastica si può notare che:

· nel 75% dei casi, la sostanza bianca periventricolare risulta interessata maggiormente nell’emisfero controlaterale al lato plegico anche se spesso il danno è bilaterale

· nel 59% dei casi, si è notata la presenza di grosse cisti poroencefaliche e cisti encefalomalaciche unilaterali

· nel 58% dei casi, è presente una grave dilatazione dei ventricoli laterali

in un numero minore di soggetti si è notata una dilatazione degli spazi subaracnoidei unilateralmente (42%), alterazioni unilaterali della corteccia cerebrale (42%) e ritardo della mielinizzazione nell’emisfero danneggiato (25%).

Per quanto riguarda in particolare i pretermine emiplegici, sono state rilevate lesioni periventricolari di tipo leucomalacico in quasi tutti i soggetti (Krägeloh-Mann I. – Petersen D. et al. 1995; Fazzi E.-Orcesi S. et al. 1994; Fujimoto S. et al.1994; Rogers B. et al.1994; Sugimoto T. et al. 1995; Krägeloh–Mann I.-Hagberg G. et al. 1995): si tratta soprattutto di leucomalacia emorragica periventricolare unilaterale, anche se, in modo interessante, le neuroimmagini in alcuni casi rivelano lesioni periventricolari bilaterali nonostante un esito neurologico principalmente emiparetico (Wilklund L.M. et al. 1991).

Tra gli emiplegici nati a termine da un parto normale e con un tranquillo periodo neonatale, giocano un ruolo maggiore le lesioni silenti durante il terzo trimestre di gestazione (Krägeloh–Mann I. – Hagberg G. et al 1995; Krägeloh-Mann I. – Petersen D. et al. 1995; Wilklund L.M. et al.1991).

In generale quindi le lesioni sono rappresentate da leucomalacia periventricolare, da anomalie di sviluppo unilaterali, da lesioni focali per rammollimento nel territorio dell’arteria silviana con conseguente poroencefalia e la gravità del quadro motorio dipende:

1. dalla sede delle lesioni (periventricolari o sottocorticali)

2. dall’estensione delle lesioni (dimensione, focali o diffuse, unilaterali o bilaterali)

3. dal tipo di danno (cistico o cicatriziale)

In particolare la leucomalacia periventricolare (PVL), lesione tipica del prematuro, rappresenta il quadro neuropatologico più studiato e più correlabile con la diplegia spastica, ma in una parte minore di casi può determinare un’emiplegia con maggior interessamento dell’arto inferiore.

Nell’emiplegico il danno leucomalacico interessa generalmente l’emisfero controlaterale all’arto plegico, ma talora, come già sottolineato in precedenza, può essere bilaterale (Di Paco M.C. et al. 1993).

La gravità del quadro clinico e quindi la tipologia clinica dipendono dall’entità della riduzione della sostanza bianca periventricolare dovuta al riassorbimento della necrosi (Yokochi K. et al. 1991; Flodmark O. et al. 1989) e dalle dimensioni e numero delle lesioni cistiche (De Vries L.S. et al. 1989,).

Nel pretermine, accanto alla PVL, occorre considerare come causa di esiti permanenti monolaterali l’infarto periventricolare emorragico (Volpe J.J. 1989), che in genere è asimmetrico e associato ad emorragia intraventricolare.

Il momento di insorgenza è il 3°-4° giorno di vita e si evidenzia all’ecografia come una lesione unilaterale, o, se bilaterale, fortemente asimmetrica, globulare e triangolare, che evolve in una cisti poroencefalica che, a differenza della PVL cistica, è singola, grande e scompare raramente. Il correlato clinico più frequente è l’emiparesi spastica con maggior interessamento dell’arto inferiore.

L’infarto periventricolare emorragico deve essere distinto dall’infarto dell’arteria cerebrale media, tipico invece del neonato a termine asfittico, che è localizzato più perifericamente ed ha come correlato clinico l’emiparesi spastica con maggior interessamento dell’arto superiore (Hill M.D., 1991).

Poroencefalia e cisti encefalomalaciche sono lesioni che interessano il territorio di distribuzione delle arterie cerebrali maggiori (soprattutto l’arteria cerebrale media e più frequentemente a sinistra); esse rappresentano cavità di dimensioni notevoli, generalmente unilaterali, localizzate all’interno della sostanza bianca periventricolare e/o sottocorticale, talora in comunicazione con il ventricolo laterale e meno frequentemente con lo spazio subaracnoideo.

La prima è caratterizzata dalla mancanza di orletto gliotico per cui sembra dovuta ad un insulto ischemico prima della ventottesima settimana; la seconda, caratterizzata dalla gliosi circostante, setti gliari all’interno dell’area necrotica e pareti irregolari, è la conseguenza di un insulto ischemico nel periodo peri o postnatale (Barkovich A.J. e Truwit C.L., 1990).

Queste lesioni si trovano più frequentemente in soggetti affetti da emiplegia grave con interessamento maggiore dell’arto superiore e associata a disturbi percettivi, cognitivi ed epilessia.

Dal punto di vista patogenetico alla base di queste lesioni vascolari del territorio della cerebrale media si riconoscono sostanzialmente tre meccanismi: quello embolico (gravidanze gemellari con "sindrome trasfusore-trasfuso", malformazioni cardiache), quello trombotico (setticemia, coagulazione intravascolare disseminata), quello ischemico.

Studi recenti attribuiscono sempre maggior importanza ai disturbi vascolari nella genesi delle PCI, soprattutto in quei casi ad eziologia sconosciuta (Sugimoto T. et al. 1995, Arias F. et al. 1998; Debus O. et al. 1998; Nelson K.B. et al. 1998) e quindi anche in una buona percentuale di casi di emiplegia. Secondo Kraus (1997) le lesioni vascolari, mediate frequentemente da trombi, sono seconde solo alle infezioni come causa di danno fetale nelle ultime settimane di gravidanza.

Negli individui sani, il bilanciamento tra i meccanismi procoagulanti ed anticoagulanti è ben regolato, proteggendo contemporaneamente contro i rischi di emorragia e quelli di un’ eccessiva coagulazione (trombofilia). In caso di lesioni vascolari trombotiche o di disordini ereditari trombofilici è invece importante considerare il rischio di infarti placentari e di lesioni cerebrali vascolari: sempre secondo Kraus eventi trombofilici in utero possono spiegare la patogenesi di molti casi di PCI e l’identificazione di coagulopatie nei genitori può rappresentare un potenziale rischio per il bambino; è quindi importante un trattamento preventivo durante la gravidanza.

In questo ambito, secondo studi recenti (Thorarensen O. et al. 1997; Harum K.H. et al. 1999) nell’etiopatogenesi dell’emiplegia congenita assumerebbe un ruolo determinante in alcuni soggetti la "mutazione del fattore V Leiden".

La mutazione Leiden è una mutazione missenso che avviene nel sito di clivaggio del fattore V attivato (fVa), appartenete alla catena di coagulazione del sangue. Il fattore V attivato ha il compito di trasformare la protrombina in trombina, determinando così il processo di coagulazione. Il fVa viene a sua volta inibito dalla proteina C attivata (APC), che modula quindi il processo di coagulazione.

Nella mutazione Leiden è mutato il sito di clivaggio del fVa e ciò rende lo stesso fattore V attivato 10-20 volte più resistente all’APC (Harum K.H. et al. 1999): da qui deriva la persistenza per un tempo superiore di trombina nel sangue, con conseguente dosaggio maggiore di fibrinogeno e fibrina e con il rischio di formazione di trombi.

Sembrerebbe appunto che la mutazione del fattore V Leiden (fVL) possa essere un’importante causa di stroke neonatali e di trombosi placentare.

Thorarensen ha riportato tre casi di bambini con differenti disordini cerebrovascolari eterozigoti per il fVL: uno è risultato affetto da emiplegia congenita e in questo caso sono stati ritrovati molteplici trombi nei vasi placentari, a supporto dell’associazione tra emiplegia congenita, trombosi placentare e mutazione fVL. Secondo Thorarensen quindi la resistenza alla APC può essere un’importante causa di danno cerebrovascolare in utero con conseguente esito in emiplegia congenita (Thorarensen et al. 1997).

Quadro clinico

Il quadro clinico dell’emiplegia in età infantile presenta alcune caratteristiche peculiari rispetto al quadro dell’adulto. Per definizione il deficit di moto interessa l’arto superiore ed inferiore dello stesso lato: nei 2/3 dei casi sono colpiti gli arti di destra e la spasticità si instaura per lo più dopo un primo periodo di ipotonia muscolare. L’arto superiore è maggiormente colpito di quello inferiore, l’emifaccia è raramente interessata, non vi è afasia qualunque sia l’emisfero colpito (per l’azione vicariante dell’altro emisfero); vi è invece un’emisomatoagnosia per il disturbo dello schema corporeo, il quale però tende a diminuire o scomparire con il passare degli anni se il bambino riuscirà ad usare il qualche modo gli arti colpiti. Sono presenti numerose sincinesie, l’emicorpo colpito è più o meno ipoplasico, specie a carico degli arti, i quali risultano un poco più corti e con il passare del tempo si possono instaurare delle retrazioni muscolo-tendinee e delle deformazioni articolari. Nel lato colpito i riflessi osteotendinei sono vivacissimi, fino ad arrivare al clono, e c’è presenza del segno di Babinski.

L’arto superiore resta per lo più aderente al tronco ed il gomito forma un angolo di 90° per un’ipertonia flessoria; la mano è flessa e deviata ulnarmente con dita flesse a pugno o estese in posizione a baionetta. L’arto inferiore è iperesteso, leggermente ruotato all’esterno.

In questa forma può essere presente una certa distonia a carico dell’arto superiore, si osserva infatti che durante la deambulazione l’arto rimane esteso ed intraruotato. Nel bambino, a differenza dell’adulto, sono frequenti i movimenti involontari di tipo atetosico a livello delle estremità superiori; questo aspetto "extrapiramidale" determina un’attitudine della mano con dita molto aperte in estensione.

Le prime manifestazioni si rendono evidenti nei casi più gravi anche in epoca neonatale con asimmetria della motilità spontanea, ma più frequentemente verso l’età di 4-5 mesi, con i primi movimenti volontari di prensione, quando il bambino non utilizza praticamente l’arto superiore colpito. Questo non solo per la paralisi, spesso incompleta, o la spasticità, che in quest’epoca è in generale modesta, quanto piuttosto ad un disturbo della sensibilità e alla reale ignoranza che il bambino ha del suo arto.

Il danno all’arto inferiore è difficilmente valutabile nel primo anno di vita, ma diventerà evidente al momento della deambulazione autonoma che solitamente avviene in età normale o di poco ritardata, con la classica andatura "falciante" dovuta al deficit di forza, ma soprattutto all’equinismo ed all’iperestensione dell’arto inferiore affetto, che il soggetto deve extraruotare per procedere nel passo.

Nel quadro di emiplegia spastica dunque è evidente una diminuzione della forza muscolare predominante alle estremità e con spasticità dei muscoli antigravitari, cioè estensori dell’arto inferiore (piede equino-varo) e flessori-pronatori dell’arto superiore (pugno chiuso, avambraccio flesso, pronazione permanente) che s’accentuano con i movimenti; talvolta la spasticità si manifesta nella corsa per una tendenza alla flessione dell’arto superiore ed un aumento dell’equinismo del piede dal lato affetto.

La preferenza manuale è, naturalmente, controlaterale.

Principali sintomi associati

Come già accennato in precedenza la PCI non si esaurisce in un problema di movimento, ma può comprendere numerosi sintomi associati, determinanti spesso per la gravità del quadro clinico e da considerare con attenzione quando ci si pone in un’ ottica riabilitativa. Tra questi un posto di particolare importanza hanno i:

· DISTURBI VISIVI ED OCULOMOTORI

I disturbi oftalmologici e neuro-oftalmologici di più frequente rilievo nelle PCI, e quindi presenti anche anche nelle emiplegie, sono:

- Vizi di rifrazione (16%)*

- Cataratta congenita (1,8%)*

- Retinopatia dei prematuri (7%)*

- Atrofia o sub-atrofia ottica (12%)*

- Strabismo (45-47%)*

- Paralisi sopranucleari di sguardo

- Deficit dell’acuità visiva di natura centrale(15%)*

- Nistagmo

- Emianopsia

(* i numeri tra parentesi si riferiscono a Douglas A.A. 1961; Sabbadini G. e Bonini P., 1975 et al.)

Grande importanza nel quadro sintomatico dell’emiplegia congenita assume l’EMIANOPSIA, presente nel 10% dei casi all’età di 6 anni e nel 40% dei casi all’età di 9 anni, associata a emianestesia (Tizard J.P. et al. 1954; Hohman L. et al. 1958; Denhoff E.D. e Robinault J.P. 1960).

Nei casi studiati da Sabbadini (Sabbadini G. 1961; Sabbadini G. e Pizzolato L. 1965), l’emianopsia era presente nel 40% delle emiplegie, se valutata con il metodo grossolano, manuale, della doppia stimolazione contemporanea dei due emicampi laterali, in termini di "rivalità percettiva".

· DISTURBI COGNITIVI

Un contributo fondamentale alla comprensione delle conseguenze che un danno cerebrale precoce ha sulle funzioni cognitive ci viene fornito dalla neuropsicologia clinica dell’età evolutiva, che studia appunto le correlazioni tra maturazione del SNC e sviluppo di funzioni cognitive quali linguaggio, prassie, memoria.

La plasticità cerebrale agisce secondo meccanismi diversi: in alcuni casi la funzione dell’area lesa viene vicariata da aree non lese e funzionalmente non impiegate (come si ipotizza avvenire nel caso di lesioni emisferiche sinistre precoci che sarebbero vicariate da aree omologhe dell’emisfero destro); in altri casi la ridondanza propria dei circuiti nervosi permette a connessioni neurali, destinate a scomparire durante il processo di maturazione in un processo di competizione e selezione, di essere mantenute (Brizzolara D. et al. 1982).

Sono numerosi gli studi neuropsicologici delle emiplegie del bambino mirati a distinguere gli effetti conseguenti ad un danno prenatale o che si manifesta alla nascita e nei primi 6 mesi di vita da quelli conseguenti ad un danno acquisito successivamente.

La vecchia idea di Kennard (risale al lontano 1938) che prima avviene la lesione, migliore è la prognosi, non sembra confermata in modo univoco dagli studi più recenti, anche se i vari meccanismi neurali di riorganizzazione funzionale sembrano più attivi nel cervello immaturo.

Secondo Aram e Eisele (1992) se la lesione precoce è focale ed è localizzata nella corteccia senza estensione sottocorticale, le conseguenze sullo sviluppo intellettivo sono meno gravi e con miglior recupero che nel caso di lesione focale tardiva.

Ci sarebbe quindi un’interazione fra età/estensione e localizzazione cortico/sottocorticale della lesione ed effetti sul piano cognitivo.

Riva e Cazzaniga (1986) e più recentemente Riva (1991) in un lavoro su bambini emiplegici con lesioni vascolari a diversa etiopatogenesi, concludono invece che i congeniti sono più compromessi alla valutazione cognitiva degli acquisiti.

Alla localizzazione della lesione (lato destro o sinistro) sono associati specifici disturbi neuropsicologici: disturbi linguistici di tipo sintattico sono stati trovati in bambini emiplegici destri, e quindi con lesioni all’emisfero sinistro, e non nei sinistri (Aram 1986, 1987), mentre disturbi dell’organizzazione spaziale sono stati identificati in emiplegici sinistri ma non nei destri (Stiles-Davis et al. 1985). In questi ultimi, in età prescolare, sono stati evidenziati disturbi dell’organizzazione spaziale del disegno con configurazione globale dell’oggetto rappresentato (Stiles-Davis et al. 1988).

Per quanto riguarda i quozienti intellettivi verbali e di performance della scala Wechsler, secondo vari Autori (Riva e Cazzaniga 1986; Riva et al. 1988) le lesioni sinistre precoci non conducono ad un Q.I. verbale più basso del performance, ma abbassano entrambi i quozienti. Tuttavia il Q.I. di performance sarebbe comunque abbassato in tutti i pazienti indipendentemente dal lato della lesione. Secondo Nass et al. (1989) gli emiplegici congeniti destri avrebbero un Q.I. verbale superiore a quello dei sinistri. Il pattern cognitivo dei lesi sinistri sarebbe spiegabile in base al cosiddetto "crowding effect" (effetto affollamento) cioè ad un vicarianza per le funzioni linguistiche dell’emisfero destro integro a spese di quelle di performance.

Concludendo si può affermare che nella maggior parte dei casi di emiplegia l’ intelligenza è globalmente conservata o solo lievemente inferiore alla norma, mentre numerosi dati in letteratura dimostrano la presenza negli emiplegici di deficit cognitivi specifici ma lievi, soprattutto linguistici, anche perché la maggioranza delle ricerche ha valutato le competenze linguistiche rispetto alle attività non verbali; la correlazione tra disturbo e sede della lesione non è sempre coerente; infine gli effetti di lesioni precoci sullo sviluppo cognitivo possono manifestarsi anche tardivamente, per esempio al momento della scolarizzazione (Brizzolara D. – Brovedani P. 1993).

· EPILESSIA

La presenza di crisi epilettiche in bambini con lesione cerebrale è frequente (Akusu F. 1990, Aicardi J. 1990, Cusmai R. et al. 1993, Hadjipanayis A. 1997, Kwong K.L. 1998, Aicardi J. - Bax M. 1998) ed è noto che interessa maggiormente i soggetti nati a termine e con interessamento diffuso dell’encefalo da danno pre, peri o postnatale.

L’associazione con l’epilessia costituisce un indice prognostico negativo, come risulta in uno studio effettuato da Vargha-Khadem e collaboratori (1992).

La frequenza dell’epilessia varia in relazione al tipo di PCI; secondo quanto riportato da Aicardi la frequenza maggiore si ritrova in bambini affetti da tetraplegia (50-90%) e in pazienti affetti da emiplegia congenita ed acquisita (25-55%). Da questi dati sembra che la presenza di crisi epilettiche in bambini con PCI sia correlata con la severità della lesione e con la sua localizzazione in termini di interessamento prevalente corticale o sottocorticale, e secondo Aicardi (1990) nel 20% dei casi esiste una concordanza tra la lesione che causa l’epilessia e la lesione responsabile della PCI.

L’incidenza dell’epilessia nell’emiplegia è piuttosto alta, circa il 30-40% dei casi congeniti. Nello studio di Vargha-Khadem su 82 bambini con emiplegia congenita, 30 presentavano epilessia.

Gli effetti sul Q.I. e sulla memoria sia verbale che non verbale erano particolarmente negativi negli emiplegici con epilessia, mentre non erano influenzate le prestazioni cognitive degli emiplegici senza epilessia ad eccezione di un compito di memoria visuospaziale (Varga-Khadem et al. 1992).

Un abbassamento del Q.I. è stato rilevato nei pazienti con epilessia clinica: in quasi tutti i casi di emiplegia sinistra e in metà di quelli con emiplegia destra (Sussova J. et al., 1990).

L’epilessia è quindi la complicanza più frequente e può apparire dopo parecchi anni con crisi motorie focali o crisi secondariamente generalizzate. Sono difficili da controllare con la terapia e la presenza di crisi resistenti alla terapia o addirittura di uno stato di male unilaterale può essere un fattore prognostico molto importante, causando un peggioramento netto delle performance del bambino, tanto da rendere necessario ricorrere alla terapia chirurgica dell’ epilessia, che in certi casi appare veramente risolutiva (Lanzi G.- Balottin U. 1999).

Bisogna inoltre ricordare che la maggior parte dei soggetti emiplegici (80% secondo lo studio di Sussova J. et al., 1990) presenta all’EEG anormalità di tipo epilettico ma meno della metà presenta segni clinici di epilessia che sembrano più frequenti in bambini con emiplegia destra.

 

Principali problemi e complicanze dal punto di vista fisiochinesiterapico ed ortopedico

Un bambino emiplegico nella maggior parte dei casi raggiunge dal punto di vista funzionale delle buone competenze motorie: sono bambini in grado di deambulare ed hanno in genere un discreto grado di autonomia. Le principali complicanze che possono insorgere nel corso dell’ evoluzione clinica, oltre a quelle derivanti come abbiamo appena visto dai sintomi associati al deficit motorio, sono fondamentalmente quelle che derivano dal non-uso dell’emicorpo interessato, dalla presenza di spasticità e dalle retrazioni articolari. Tutti questi elementi possono giocare un ruolo sia precocemente, in fase di apprendimento motorio, condizionando l’acquisizione delle varie tappe dello sviluppo, sia più tardivamente nel tempo, compromettendo capacità già acquisite ed interferendo con la qualità della vita del soggetto.

Innanzitutto la spasticità, che può essere più o meno grave a seconda dei casi, interferisce con i movimenti volontari e spesso aumenta nel corso di essi: è il motivo per cui il bambino emiplegico che inizia a camminare adotta uno "stile" particolare di deambulazione , detta appunto falciante.

Il pericolo, sia agli arti superiori che a quelli inferiori, è che si instaurino delle contratture muscolari permanenti e che le articolazioni diventino rigide.

Infatti una contrattura prolungata nel tempo favorisce la comparsa di modificazioni stabili a livello della struttura connettivale passiva del muscolo; il fenomeno da reversibile, diviene irreversibile. Si parla allora di retrazione. Il muscolo retratto sperimentalmente si modifica nella lunghezza e nel diametro, diminuendo il numero di sarcomeri e la forza massima esprimibile. Nel muscolo retratto si osserva una conversione delle fibre lente di tipo I in fibre veloci ma affaticabili di tipo II B.

Questi fenomeni sono però reversibili ed il muscolo è in grado di riorganizzarsi e rimodellarsi, seppure in tempi sempre più lunghi, tanto più elevato è il grado di retrazione muscolare e quanto più rapida è la crescita scheletrica del soggetto. Nelle forme "spastiche" di PCI, è più facile l’instaurarsi della retrazione, che risulta invece meno frequente nelle forme "discinetiche" per la fluttuazione della contrattura e della instabilità degli schemi motori. Nell’ emiplegico tipica è la contrattura con il conseguente accorciamento muscolare del gastrocnemio e del tendine di Achille all’arto inferiore o la contrattura fissa in adduzione del pollice all’ arto superiore, con conseguente impotenza funzionale. Le alterazioni da muscolari arrivano poi a coinvolgere le articolazioni e lo scheletro: ad una certa distanza dall’instaurarsi di alterazioni del muscolo, le articolazioni coinvolte vanno incontro ad un progressivo deterioramento nella riduzione dell’ampiezza dell’escursione (limitazione) o nella alterazione degli assi di movimento (deformità).

Inoltre il tutto avviene in un periodo di rapido accrescimento corporeo e osseo del bambino e questo può evidentemente peggiorare la situazione, portando ad una differenza sempre maggiore tra la lunghezza delle parti ossee e quella di muscoli e tendini: questo aumenta ancora di più il rischio di deformità osteo-articolari permanenti, fino ad arrivare a lussazioni, con conseguente dolore, impotenza funzionale ecc.

Le deformità che si riscontrano più frequentemente nelle emiplegie sono a carico dell’anca, del ginocchio e del piede:

- DEFORMITA’ DELL’ANCA: è frequente un atteggiamento ad anca flessa-adotta-intraruotata, la componente flessoria raramente richiede una correzione chirurgica, mentre l’adduzione-intrarotazione può essere ridotta con la tenotomia degli adduttori.

- DEFORMITA’ DEL GINOCCHIO: si può distinguere il ginocchio flesso, come compenso alla retrazione del tricipite surale, dal ginocchio recuravato, il cui stabilirsi è causato dall’iperlassità legamentosa con conseguente instabilità articolare. Mentre nel primo caso è necessario ridurre l’equinismo per riallineare il ginocchio, nel secondo si ricorre all’uso di calzature o ortesi.

- DEFORMITA’ DEL PIEDE: è il problema più complicato e diffuso, è spesso presente un equinismo che va considerato in rapporto funzionale all’arto controlaterale.

L’equinismo di appoggio, da esagerata reazione di sostegno si associa al ginocchio flesso con baricentro spostato verso l’emilato conservato e viene corretto chirurgicamente.

L’equinismo di spinta, presente al termine della fase di appoggio per abnorme reazione di stiramento dei plantiflessori quando la gamba si porta avanti rispetto al piede, viene corretto con la terapia farmacologica prima della retrazione, con l’allungamento del tendine d’Achille quando la contrattura è strutturata.

L’equinismo in sospensione, per difetto di contrazione dei dorsiflessori o per ritardo nel momento di attivazione, è ben compensato dall’uso di ortesi di sostegno in grado di vincere il peso del piede (Ferrari A. et al. 1996).

Un problema inoltre tipico del bambino emiplegico è l’asimmetria: avere colpito solo un emicorpo, può accentuare le abitudini posturali scorrette, gli atteggiamenti scoliotici del rachide e peggiorare le deformità ossee ed articolari; nel cammino l’asimmetria di carico e l’appoggio in punta dal lato leso aumenta il rischio di inciampare e di frequenti cadute. Fin da molto piccolo il bambino diventa consapevole di avere un emicorpo funzionalmente competente ed uno che crea difficoltà, non raggiunge gli scopi, non risponde ai comandi in modo soddisfacente e, naturalmente, anche in assenza di grossi problemi percettivi, tende ad utilizzare l’emilato sano, "dimenticandosi" di quello leso e accentuando quindi le differenze.

La presa in carico di un bambino con emiplegia si trova a dover quindi affrontare tutti i problemi precedentemente accennati e molti altri ancora, non ultimi quelli di tipo emotivo e psicologico connessi con il difficile cammino che il bambino e la sua famiglia devono compiere per accettare innanzitutto la presenza della patologia ed in un secondo tempo le terapie che essa comporta.

Premesso che non esiste una terapia risolutiva capace di "guarire" la paralisi cerebrale infantile, lo sforzo che sarebbe necessario fare per ogni soggetto affetto dovrebbe essere quello di prevenire o perlomeno minimizzare le complicanze secondarie alla patologia di base ed assicurarsi che il bambino possa raggiungere la piena espressione delle sue potenzialità, presenti nonostante il danno cerebrale. Gli strumenti che abbiamo a disposizione per raggiungere tali obiettivi sono essenzialmente la terapia neuromotoria con i suoi vari aspetti ed ambiti, la terapia farmacologia della spasticità e la chirurgia ortopedica. Faremo solo degli accenni a queste ultime due per concentrarci invece sulla presa in carico riabilitativa neuromotoria.

 

La terapia farmacologica

In alcuni casi per ridurre la spasticità, e poter intervenire con la chinesiterapia, si ricorre all’utilizzo di farmaci; stroricamente i più utilizzati sono quelli ad azione generale come il baclofen, il dantrolene, la tizanidina, ecc. Accanto all’azione terapeutica però, questi producono notevoli effetti collaterali ed un conseguento aumento dell’affaticabilità complessiva del paziente. Anziché per via orale, recentemente si è adottato l’utilizzo di pompe permanenti poste sottocute al paziente che rilasciano direttamente in sede subaracnoidea il farmaco, riducendo in questo modo il rischio di effetti indesiderati.

Più utilizzati nei primi anni di vita sono i farmaci ad azione locale come la tossina botulinica, l’alcool etilico ed il fenolo. Iniettati rispettivamente sul ventre muscolare, sulla placca neuromuscolare o sul nervo di moto, producono una paralisi periferica transitoria del distretto muscolare interessato che può durare da quattro a sei mesi . Attualmente il farmaco più utilizzato tra questi, perché dotato di miglior efficacia e minori effetti collaterali, è la tossina botulinica, che viene iniettata in piccole dosi a livello del gastrocnemio, dei flessori del ginocchio o di altri ventri muscolari, a seconda delle necessità, nei bambini con età superiore ai due anni, con il fine di ridurre temporaneamente la spasticità. Al di là dell’inibizione specifica della spasticità occorre annoverare tra gli effetti terapeutici anche la possibilità che durante la fase di inattività del muscolo, il SNC del soggetto possa imparare ad organizzare, attraverso l’intervento terapeutico riabilitativo, il movimento in modo diverso (Ferrari A. et al. 1997).

 

La chirurgia ortopedica

La chirurgia ortopedica , come accennato in precedenza, interviene nella storia di un soggetto emiplegico quando le retrazioni muscolo-tendinee e le deformità articolari si sono instaurate in modo definitivo, compromettono significativamente le performance del soggetto o causano dolore e non possono essere trattate in altro modo.Nella maggior parte dei casi questo non succede nei primi anni di vita e la necessità di un intervento chirurgico nei soggetti emiplegici non è particolarmente frequente , rispetto agli altri quadri di paralisi cerebrale infantile. Le complicanze che più frequentemente richiedono un’ intervento chirurgico riguardano di solito le deformità dell’ anca, del ginocchio, del piede ed in età più avanzata a volte certi quadri di scoliosi progressiva. L’ intervento di chirurgia ortopedica è spesso multidistrettuale, deve essere preceduto da una valutazione globale del bambino e dei compensi adottati e dovrebbe essere comunque inserito nell’ ambito di un progetto riabilitativo multidisciplinare.

Infatti occorre ricordare che la chirurgia ortopedica non riguarda solo la correzione di un difetto o di una deformità, ma l’attività funzionale che l’individuo può esprimere attraverso un utilizzo più appropriato di quel segmento, di quell’apparato o di quel sistema.

La decisione di chi operare, di quando operare e di cosa operare spetta al riabilitatore, la decisione di come operare al chirurgo ortopedico (Ferrari A. 1996).

I principi che ispirano la progettazione di interventi chirurgici ortopedici nella PCI possono essere esemplificati a quattro diversi criteri di analisi (Ferrari A. 1996):

1. ANALISI DI SEGMENTO

La deformità deve essere in primo luogo analizzata nel segmento interessato; se è dovuta alla retrazione di un muscolo monoarticolare, il guadagno chirurgico investirà quella sola articolazione, mentre si tratta di muscoli biarticolari è probabile che la correzione avvenga contemporaneamente sulle diverse articolazioni interessate.

2. ANALISI DI APPARATO

L’analisi di segmento viene superata dall’analisi di apparato perché così si può stabilire la priorità, la misura e la logica delle correzioni richieste. Questa visione del problema è stata razionalizzata da Milani Comparetti e Poccianti sotto il termine di chirurgia multipla simultanea.

Nel bambino emiplegico ad esempio, il piede equino, inequivocabile deformità segmentaria, cambia di significato a seconda che a livello di apparato siano o meno presenti un ginocchio flesso o un’anca flessa irrisolvibili.

3. ANALISI DI SISTEMA

Benché un sistema è costituito dalla somma degli apparati che concorrono a realizzare una stessa attività, non sempre una deformità significativa a livello di segmento e di apparato resta tale a livello di sistema.

4. ANALISI DI FUNZIONE

La locomozione come funzione è qualcosa di più complesso che non una semplice successione di passi e comporta l’integrazione dell’attività di più sistemi (equilibrio, barestetica e cinestetica…).

Maggiori saranno i cambiamenti apportati allo schema, più difficile risulterà per il paziente riorganizzare la funzione. Alcuni cambiamenti imposti dalla chirurgia ortopedica possono risultare troppo impegnativi per il paziente per cui anziché ridurre le deformità finiscono per ridurre la funzione.

Un esempio di queste problematiche per quanto riguarda l’ emiplegia, ci viene fornito da Ferrari (1996) quando afferma che in un bambino emiplegico l’equinismo del piede, quando l’anca ed il ginocchio risultino in buona posizione, potrebbe non costituire una deformità così importante se l’arto plegico, a livello di sistema, non risultasse significativamente più corto del controlaterale. Infatti, almeno in parte, l’equinismo risulterebbe compensatorio dell’ipometria e come tale funzionalmente utile all’equilibrio del sistema, a meno che non si voglia correggere contemporaneamente anche l’ipometria (rialzando la scarpa, penalizzando la crescita dell’arto conservato, allungando l’arto plegico). In ogni caso, pareggiando la lunghezza degli arti inferiori, non "si pareggia" la capacità del paziente di utilizzarli. L’arto plegico resterà comuque meno abile, meno potente, meno controllabile.

La conservazione di una modesta ipometria potrebbe rivelarsi funzionalmente utile, specie durante la fase aerea del passo, evitando un contatto con il suolo eccessivamente precoce.

Va quindi ben accettata una dismetria tra gli arti e se manca potrebbe essere meglio inventarla agendo opportunamente sulle calzature, in quanto il bambino emiplegico deambula meglio quando l’arto plegico risulta leggermente più corto del controlaterale. Solo quando a livello di sistema l’equinismo sopravanza la dismetria funzionalmente utile, è bene procedere alla sua correzione chirurgica (Ferrari A. 1996).

Soprattutto nei primi anni di vita l’approccio ortopedico all’emiplegia si avvale, più che dell’intervento chirurgico, dell’utilizzo di ortesi.

Le ortesi nell’emiplegia

Boccardi definisce l’ortesi come un presidio ortopedico che viene applicato direttamente al corpo del paziente in presenza dell’organo, dell’apparato, della struttura o del sistema deficitario, insufficiente o inadeguato che si intende assistere, vicariare o correggere (Boccardi S., 1976).

I principali problemi affrontabili nell’emiplegia con l’uso di ortesi sono a carico del piede e del ginocchio.

In relazione all’equinismo del piede va considerata la presenza e l’entità dell’ipometria. L’equinismo può infatti essere un compenso all’ipometria dell’arto plegico.

L’equinismo in sospensione invece può ostacolare l’avanzamento ed il superamento della verticale. In questo caso può essere utile un’ortesi gamba-piede (o "splint") in polipropilene su misura, lunga quanto il piede e leggera, con il solo compito di sostenere il peso del piede (Bobath B. et al.1976; Grenier A. 1974)

Lo splint può rendersi utile anche per contenere la tendenza alla valgo-pronazione sotto carico..

Nell’equinismo d’appoggio le ortesi devono essere più rigide, meno flessibili.

L’equinismo di spinta non viene solitamente corretto perché funzionalmete utile.

Nel ginocchio flesso occorre valutare se esso sia secondario alla retrazione del tricipite surale. In questo caso, corretto l’equinismo, si risolve anche la flessione del ginocchio.

Il ginocchio recurvato è per lo più legato ad una tensione del tricipite che produce in pieno appoggio l’iperestensione del ginocchio; un suo contenimento può essere realizzato con una ortesi da caviglia o con un rialzo al tacco della calzatura (Ferrari A. et al.1997).

L’utilizzo di splint gamba-piede a 90° è inoltre indispensabile nel periodo successivo alla somministrazione di tossina botulinica, per mantenere nel tempo un adeguato stiramento muscolare, prolungando i benefici della tossina e facilitando il controllo motorio